Il 23 dicembre scorso il SSN ha compiuto 45 anni, e lo ha fatto nella peggiore delle forme possibili. La Fondazione GIMBE, Ente indipendente di ricerca e formazione a difesa di un servizio sanitario pubblico, equo e universalistico lancia un allarme, l’ennesimo, chiedendo un cambio immediato di rotta nelle politiche sanitarie, rischio l’estinzione del servizio sanitario universalistico sancito in Costituzione. Ne parliamo col suo Presidente, Nino Cartabellotta.
Lo scorso 10 ottobre avete presentato il vostro 6° rapporto sul Servizio Sanitario Nazionale, che definite al capolinea, denunciando il tradimento dei suoi princìpi fondanti: universalità, uguaglianza, equità. Quali sono le evidenze che dimostrano come il diritto alla salute si stia trasformando, o si sia già trasformato, in un diritto inesigibile?
Prima della pandemia la crisi di sostenibilità del SSN era solo oggetto di confronto tra addetti ai lavori. Oggi invece la vita quotidiana delle persone, in particolare quelle meno abbienti, è sempre più condizionata dalla mancata esigibilità del diritto fondamentale alla tutela della salute: interminabili tempi di attesa per una prestazione sanitaria o una visita specialistica, necessità di pagare di tasca propria le spese per la salute sino all’impoverimento delle famiglie e alla rinuncia alle cure, pronto soccorso affollatissimi, impossibilità di trovare un medico o un pediatra di famiglia vicino casa, enormi diseguaglianze regionali e locali sino alla migrazione sanitaria.
Il tema centrale è sempre quello del finanziamento, o meglio del definanziamento che da 15 anni, scrivete, si è esercitato fino a portare il nostro Paese ad essere in Europa primo fra i paesi poveri in termini di spesa sanitaria pro-capite. Ma il gap è recuperabile?
15 anni di tagli e definanziamento da parte di Governi di ogni colore hanno generato un progressivo e inesorabile indebolimento del SSN nella sua componente strutturale, tecnologica e soprattutto professionale. Infatti, nel 2022 siamo davanti solo ai paesi dell’Europa meridionale (Spagna, Portogallo, Grecia) e quelli dell’Europa dell’Est, eccetto la Repubblica Ceca. Il gap rispetto alla media dei paesi europei, progressivamente aumentato a partire dal 2010, nel 2022 ha toccato quota $ 873 (pari a € 801),: parametrato alla popolazione residente ISTAT al 1° gennaio 2023, per l’anno 2022 corrisponde ad un gap di oltre € 47miliardi. Se consideriamo il periodo 2010-2022 il gap complessivo arriva alla cifra monstre di € 333 miliardi. Un gap di tale entità può essere recuperato solo pianificando un rilancio progressivo del finanziamento pubblico, parallelamente all’attuazione di coraggiose riforme. È assurdo che la politica dibatta del fabbisogno sanitario nazionale (FSN) solo in occasione della Legge di Bilancio, perché per il SSN non è rilevante conoscere quante risorse saranno investite il prossimo anno, ma se nei prossimi 5 anni gli investimenti torneranno in linea con quelli dei paesi europei.
Le elezioni europee sono alle porte, e uno dei fini del PNRR sarebbe proprio il potenziamento dei servizi sanitari per raggiungere i famigerati Lea, i livelli essenziali di assistenza. Come sta andando?
A dicembre 2023 tutte le scadenze europee (che condizionano il pagamento delle rate) sono state rispettate. Dei traguardi e obiettivi nazionali – che costituiscono scadenze intermedie – alcuni sono stati differiti, ma i ritardi sulle scadenze italiane non sono critici, fatta eccezione per il mancato raggiungimento del target “Nuovi pazienti che ricevono assistenza domiciliare (prima parte)”. In dettaglio, entro marzo 2023 avrebbero dovuto essere assistiti in ADI 296 mila pazienti over 65 e lo slittamento di 12 mesi consegue al fatto che la maggior parte delle Regioni del centro-sud hanno una limitata offerta di ADI. Relativamente allo stato di implementazione del DM 77, riforma prevista dal PNRR per riorganizzare l’assistenza territoriale, il monitoraggio Agenas del giugno 2023 conferma il netto ritardo di tutte le Regioni del Sud nell’attivazione delle strutture: Case della Comunità, Centrali Operative Territoriali e Ospedali di Comunità. Un ritardo imputabile non a inefficienze locali nell’attuazione del PNRR, ma semplicemente al “punto di partenza” dell’assistenza territoriale nelle regioni meridionali. Tuttavia la tanto attesa riorganizzazione dei servizi sanitari territoriali, è stata fortemente ridimensionata con la rimodulazione approvata dalla Commissione Europea. Sono state espunte 312 case di comunità, 120 centrali operative territoriali, 74 ospedali di comunità e 25 interventi di antisismica. A ciò si aggiunge l’incomprensibile taglio di 808 posti letto di terapia intensiva e 995 di terapia semi-intensiva, peraltro non richiesti nella proposta inviata a Bruxelles. In aggiunta, ci sono i differimenti temporali: in particolare il target relativo all’installazione delle grandi apparecchiature che dal 31 dicembre 2024 è slittato al 30 giugno 2026.
C’è poi la minaccia dell’autonomia differenziata, che acuirebbe ulteriormente la frattura fra Nord e Sud, in un sistema che già oggi vede uno scivolamento da un Servizio sanitario nazionale a 21 sistemi regionali, a diversa penetrazione del mercato. Come ci siamo arrivati e come si può frenare questa deriva?
A fronte di un SSN nato 45 anni fa sotto il segno dell’uguaglianza e dell’equità, ci ritroviamo oggi con 21 servizi sanitari regionali profondamente diseguali, con una vera e propria “frattura strutturale” tra Nord e Sud, dove spesso ai residenti non sono garantiti nemmeno i livelli essenziali di assistenza. Il monitoraggio 2021 dei LEA da parte del Ministero della Salute documenta infatti che delle 14 Regioni adempienti solo 3 sono del Sud (Abruzzo, Puglia e Basilicata), tutte a fondo classifica. E questo alimenta il triste fenomeno della mobilità sanitaria che, nei dati definitivi del 2021 vale € 4,24 miliardi: risorse che scorrono prevalentemente dalle Regioni meridionali verso 3 Regioni settentrionali dove si concentra il 93,3% dei saldi attivi. Proprio le stesse Regioni (Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto) che hanno già sottoscritto i pre-accordi per le maggiori autonomie. Nel 2021, infatti, le Regioni con saldo positivo superiore a € 100 milioni sono tutte al Nord: Emilia-Romagna (€ 442 milioni), Lombardia (€ 271 milioni) e Veneto (€ 228 milioni); e quelle con saldo negativo maggiore di € 100 milioni tutte al Centro-Sud: Abruzzo (-€ 108 milioni), Puglia (-€ 131 milioni), Lazio (-€ 140 milioni), Sicilia (-€ 177 milioni), Campania (-€ 221 milioni), Calabria (-€ 252 milioni). Ed è proprio su questa “frattura strutturale” Nord-Sud che pende la mannaia dell’autonomia differenziata che, senza definire e finanziare i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), è destinata ad amplificare le diseguaglianze, legittimando normativamente il divario tra il Nord e il Sud del Paese, violando il principio di uguaglianza nel diritto alla tutela della salute e assestando il colpo di grazia al SSN. Per tali ragioni la Fondazione GIMBE, in audizione in 1a Commissione Affari Costituzionali del Senato ha chiesto formalmente di espungere la tutela della salute dalle materie su cui le Regioni possono chiedere maggiore autonomia.
Non ultima è la questione della carenza del personale medico e sanitario della fuga verso il privato, degli esodi volontari, del difficile ricambio. Come si motiva, e come si incentivano i professionisti della salute a restare nel pubblico?
Prima il definanziamento 2010-2019 ha determinato una carenza quantitativa, per blocco delle assunzioni, mancati rinnovi contrattuali, insufficiente numero di borse di studio per specialisti e medici di famiglia. Poi l’emergenza COVID-19 ha slatentizzato una crisi motivazionale che oggi determina licenziamenti volontari e pensionamenti anticipati, con fughe verso il privato o per l’estero, oltre che lo spopolamento di alcuni corsi di laurea (es. scienze infermieristiche) e specialità mediche (es. emergenza-urgenza). E infatti i servizi sanitari pubblici sono continuamente in affanno per la carenza di personale. Adesso la parola chiave può essere solo “rimotivazione”: aumentare le retribuzioni, migliorare le condizioni organizzative di lavoro (dalla sicurezza, al tempo libero, dalla formazione alle prospettive di carriera), ma soprattutto fare sentire i professionisti sanitari parte integrante di un pilastro della democrazia e di un SSN che tutela un diritto costituzionale delle persone. Perché la loro demotivazione è innanzitutto figlia della svalutazione del loro ruolo sociale.
Voi avete lanciato, a 10 anni dalla vostra campagna #SalviamoSSN, una rete civica che porta lo stesso nome. A cosa serve e come si partecipa?
A dieci anni dall’avvio della campagna #SalviamoSSN, la Fondazione GIMBE ha scelto di lanciare una rete civica nazionale con sezioni regionali. Riteniamo indispensabile diffondere a tutti i livelli il valore del SSN, come pilastro della nostra democrazia, strumento di equità e giustizia sociale, oltre che leva di sviluppo economico. L’obiettivo è coinvolgere sempre più persone nella tutela e nel rilancio del SSN, nonché promuovere un utilizzo informato di servizi e prestazioni sanitarie, al fine di arginare fenomeni consumistici. Perché, al di là delle difficoltà di accesso ai servizi, la maggior parte delle persone non ha ancora contezza del rischio imminente: quello di scivolare lentamente ma inesorabilmente, in assenza di una rapida inversione di rotta, da un Servizio Sanitario Nazionale fondato su princìpi di universalità, uguaglianza, equità per tutelare un diritto costituzionale, a 21 sistemi sanitari regionali basati sulle regole del libero mercato. La rete, alla quale è già possibile aderire, opererà attraverso gruppi regionali di coordinamento, che fungeranno da hub locali per coordinare iniziative e attività della campagna #SalviamoSSN sul territorio. La rete sarà poi popolata di ambassador, impegnati nel promuovere attivamente la campagna a livello locale, e da cittadini che aderiranno alla causa. Anche le organizzazioni pubbliche e private potranno sostenere attivamente la campagna. In questo modo, la rete mira a coinvolgere tutto il Paese per difendere e rafforzare il SSN attraverso azioni coordinate e partecipazione attiva.